Ferragosto si avvicina, tirate fuori i cestini da picnic! Che ci portiamo? Tutte preparazioni veloci da fare e pratiche da trasportare e da mangiare – quasi non servono nemmeno piatti e posate! Il segreto? I migliori salumi italiani.
Ode al ketchup
Se dico ketchup, cosa vi viene in mente? Fatemi indovinare: una nota catena di fast food, patatine fritte e hamburger, una bottiglia (che orrore!) in plastica.
La maggioranza degli italiani ha la percezione del ketchup come prodotto di serie B. Probabilmente molti ce l’hanno in frigo, ma non ne vanno fieri. È visto generalmente come un’“americanata”, per non dire di peggio.
In realtà, non c’è niente di sbagliato nel ketchup in sé, anzi. Il bilanciamento dei sapori tra dolcezza e acidità non è una novità nella cucina italiana tradizionale, ma c’è qualcosa in questa salsa ricca di zucchero e aceto che proprio non convince i palati più sopraffini.
Ma facciamo un passo indietro. Com’è nato il ketchup? Come si è diffuso nel nostro paese? E perché è così bistrattato?
Ketchup: una salsa che viene da lontano
Forse vi stupirà, ma le origini del ketchup non hanno niente a che vedere con gli USA. La sua storia inizia più di 500 anni fa, nella regione costiera della Cina meridionale chiamata Fujian, al tempo il centro marittimo più importante di tutto il Sud-est asiatico.
Da qui partono i traffici commerciali diretti verso Filippine, Indonesia, Malesia, Cambogia e Vietnam. I marinai cinesi si spingono fin nell’interno del continente, risalendo il fiume Mekong. Sulle sue sponde incontrano villaggi di pescatori che producono una salsa densa a base di pesce fermentato, l’antenata del moderno ketchup.
Ketchup significava succo di pesce nel dialetto hokkien dei marinai, che si innamorarono di questa salsa dal gusto forte e la diffusero in tutto il Sud-est asiatico insieme ai loro commerci.
Nel Seicento la rete commerciale dalla Cina si estendeva fino all’Europa. Scambi, incroci e contaminazioni fecero sì che questa salsa a base di pesce fermentato arrivasse anche nel nostro continente. La novità fu subito apprezzata, e i cuochi di corte facevano a gara per personalizzarla, aggiungendo funghi, noci, limoni o ostriche.
Ketchup e USA: un amore lungo tre secoli
Alla fine del Settecento il ketchup arriva negli States. Qui si trasforma e diventa la salsa che conosciamo oggi, grazie all’intuito eccezionale di James Mease. Medico, scienziato, numismatico e orticoltore di Philadelphia, ebbe la geniale idea di sostituire il pesce fermentato con il pomodoro. Nel 1812 pubblicò la prima ricetta del ketchup, senza zucchero né aceto, ma con brandy e molte spezie. E fu subito un successo.
Tutta farina del suo sacco? Non proprio, se consideriamo che solo pochi anni prima Maria Eliza Rundell aveva pubblicato in Inghilterra e negli Stati Uniti A New System of Domestic Cookery, un compendio di tutto ciò che una brava donna di casa si supponeva dovesse sapere. Cure e rimedi casalinghi, consigli su come trattare la servitù e, soprattutto, ricette. Tra queste, la prima ricetta di tomato sauce stampata al mondo.
Il primo a imbottigliare il ketchup, nel 1837, fu il fattore Jonas Yerkes. Preparare il ketchup non era difficile, ma richiedeva, tra spezie e aromi, moltissimi ingredienti e soprattutto moltissimo tempo di cottura. L’idea di venderlo in bottiglia fu un colpo di genio.
E qui arriva Henry J. Heinz, un vero mago del marketing. Nel 1876 sviluppa e migliora la ricetta originale aggiungendo la cipolla, lo zucchero e l’aceto ma soprattutto propone il suo ketchup pronto come “un sollievo per le madri e la altre donne nella casa”.
Ulteriore modifica alla ricetta nel 1906. La Food and Drug Administration vieta l’utilizzo del benzoato di sodio come conservante. Ma Heinz ha la risposta pronta: aumenta ancora la quantità di zucchero e aceto, così che la salsa non richieda ulteriori conservanti.
Siamo al ketchup industriale che troviamo ancora oggi tra i banchi del supermercato. Molto dolce e molto denso, senza benzoato ma comunque lontano dall’idea di cibo sano e genuino.
Tutto dipende dalle materie prime
Detto questo, dobbiamo riconoscere che la deriva industriale non è da attribuirsi alla scarsa qualità del ketchup in sé, ma casomai alla politica del produttore. Il ketchup, credetemi, può essere un prodotto davvero valido, se fatto bene e con materie prime di qualità.
Prima di tutto i pomodori. Devono essere maturi, italiani e lavorati appena colti. Lo zucchero ci deve essere, ma in giusta quantità, per bilanciare e arrotondare il gusto, non per coprire gli altri sapori. Anche la qualità dell’aceto è importante, così come quella delle erbe aromatiche.
Insomma, rendere il ketchup un prodotto davvero eccezionale si può, e si deve. È importante riabilitare la sua reputazione, perché non dobbiamo arrenderci a vederlo solo come accompagnamento del junk food!
Via libera alla fantasia
Il ketchup originale era a base di pesce fermentato, poi, per un lungo periodo, i cuochi ci hanno aggiunto gli ingredienti più disparati. Solo dall’inizio del Novecento il ketchup ha il gusto che intendiamo noi.
Lo possiamo personalizzare, modificare, perfino declinare in base alla stagionalità. Possiamo sostituire i pomodori con altri ortaggi e aromi, per renderlo più o meno delicato, più o meno saporito o piccante.
Il fatto che il ketchup sia la salsa più venduta al mondo la dice lunga. Come tutti i prodotti migliori, la sua è una storia di contaminazioni. Nato sulle sponde del Mekong, diffuso dai marinai cinesi in Europa e da qui negli Stati Uniti, ha raggiunto l’apice del successo con la produzione industriale.
Sarebbe sbagliato, però, etichettarlo solamente come un prodotto della grande distribuzione, con tutti i limiti qualitativi che ne conseguono. Quello è uno dei ketchup possibili, e purtroppo il più noto, ma non è certo l’unica possibilità come Nonno Andrea ci insegna.